Verità e bugie su Michele Sindona
Michele Sindona, il finanziere anticomunista amico di Richard Nixon, l'uomo che Giulio Andreotti definì il salvatore della lira, lo scaltro finanziere che fu condannato in primo grado come mandante dell'omicidio di Giorgio Ambrosoli, il banchiere della P2 fermato nella sua irresistibile ascesa ai poteri economici e finanziari da Ugo La Malfa e Enrico Cuccia, beve un caffè carico di cianuro il 20 marzo del 1986 alle 8 del mattino. Morirà dopo un`agonia di 54 ore. Al carcere di massima sicurezza di Voghera, quinto reparto, è l`ora della colazione: isolato da porte blindate, controllato da telecamere a circuito chiuso, sorvegliato da 15 guardie divise in cinque turni in continua rotazione, c`è dal 22 ottobre ` 84, da quando l`hanno estradato dagli Stati Uniti.
Come tutte le mattine, il caffè e il latte per Sindona vengono messi in thermos sterilizzati e chiusi a chiave in un contenitore di metallo. Ad aprirli sono cinque agenti. È lo stesso finanziere siciliano a miscelare la colazione sulla soglia della cella sotto lo sguardo dei suoi custodi. Sindona porta il caffè alla bocca, voltandosi verso il bagno. Gli agenti richiudono la porta e lo osservano dallo spioncino. È l`attimo fatale: vedono Sindona prima barcollare, poi stramazzare a terra gridando: « Mi hanno avvelenato... ». Finisce così la vita dell'avventuroso banchiere siciliano. Ma dal momento in cui le agenzie di stampa battono per prime la notizia della sua morte, inizia la storia di un altro dei tanti misteri d'Italia. Il mistero Sindona, appunto, come recita il libro di Nick Tosches edito da Alet.
Un complotto giudiziario che si conclude con un omicido politico voluto dai suoi nemici? Nelle carte giudiziarie relative all'inchiesta che si aprì dopo la morte di Michele Sindona non c'è traccia di questa suggestiva ipotesi, l'avvelenamento viene rubricato dagli inquirenti come suicidio e l'accusa di avvelenamento come una sceneggiata. Anche di recente Gianni Simoni e Giuliano Turone, i due autori di un altro libro sul banchiere, "Il caffè di Sindona", sposano la tesi del suicidio. Nick Tosches, tuttavia, fa aleggiare come un fantasma questa ipotesi dell'omicidio politico. D'altronde nelle 327 pagine è quasi sempre Michele Sindona a parlare e l'autore del libro avvalora in pieno le sue tesi, senza mai avvalersi della documentazione giudiziaria che mostrava la deriva criminale di Michele Sindona. Certo non si fanno nomi di possibili mandanti, nè si propongono documenti che smentiscano la condanna di primo grado per l'omicidio di Giorgio Ambrosoli o la condanna per bancarotta della Franklin Bank o ancora indizi sull'ipotesi dell' omicidio perfetto che si sarebbe consumato nel carcere di Voghera ma tutto l'impianto del suo libro e la ricostruzione miniziosa dell'ascesa dei banchiere siciliano avvalorano il grido di dolore di Sindona prima di morire: "Mi hanno avvelenato". E la lettera che lo stesso Michele Sindona scrive al suo biografo Nick Tosches, il 18 marzo del 1986, due giorni prima di aver bevuto il caffè al cianuro, indica indirettamente le ragioni di un possibile omicidio. Anzi, in qualche modo lo annuncia: "Dopo la odierna sentenza della Corte d'Assise i miei avversari - scrive Sindona - avranno paura della mia reazione e cercheranno di eliminarmi anche fisicamente". Anche in questo caso non ci sono elementi fattuali o possibili mandanti ma i fatti citati dal banchiere toccano nel vivo la vicenda dell'Ambrosiano e i personaggio che ruotano attorno a quello che sarà il crocevia di tutta la criminalità politica ed economica di quegli anni. "1) Il regalo di 21 milioni di dollari - scrive Sindona - di proprietà del Banco Ambrosiano fatto da Roberto Calvi al primo ministro italiano Bettino Craxi. 2) Il pagamento ai partiti politici di oltre 300 miliardi di lire negli anni dal 1969 al 1974 da parte di società italiane quotate in Borsa, con fondi neri". A proposito del secondo punto Sindona spara a zero sull'uomo che dal libro di Tosches emerge come il vero nemico del banchiere: Enrico Cuccia, allora deus ex machina dei poteri economico finanziari in Italia. "Ho fornito a Guido Viola - scrive ancora Sindona - i documenti che dimostravano, tra l'altro, che Enrico Cuccia era stato l'intermediario per tali pagamenti con l'aiuto della società finanziaria Spafid". Nel suo libro-confessione Sindona nega ovviamente di avere mai avuto a che fare con ambienti mafiosi e nel ribattere lancia un'accusa pesante quando afferma senza mezzi termini che una delle banche della mafia a Milano era la banca Rasini. Ovvero una piccola banca milanese, nata negli anni ed inglobata nella Popolare di Lodi nel 1992. Il motivo principale della sua fama è che tra i suoi clienti principali si annoveravano i criminali Pippo Calò, Bernardo Provenzano e Totò Riina e, dulci in fundo, Silvio Berlusconi il cui padre Luigi Berlusconi lavorava come funzionario. In una edizio e precedente si parlava semplicemente di una piccola banca milanese poi si è deciso di fare il nome della banca Rasini.
Da un punto di vista editoriale vi è una stranezza che va sottolineata. Il libro di Nick Tosches viene aperto da uno scritto di Gianni Barbacetto che in 19 pagine smonta l'impianto dell'autore, propone una versione radicalmente diversa su Michele Sindona, quasi un controcanto che avvalora, a differenza dell'autore, gli impianti accusatori che escono da quasi tutti gli atti giudiziari su Michele Sindona.
Riflessioni di un giornalista su ciò che accade in Italia e nel mondo. La verità è la voce dell'anima.
"La televisione uccide la realtà". Baudrillard
"La realta' e' stata sterminata e con essa e' scomparsa ogni illusione: la realizzazione totale del mondo, la fabbricazione di un mondo perfettamente identico a quello umano hanno provocato la fine del nostro mondo imperfetto. La televisione? Certo e' stata un complice importante di questo delitto. Proponendoci un raddoppiamento del mondo, i media offrono un' immagine che sempre piu' fa a meno di ogni riferimento al reale, un' immagine di sintesi che ha preso il sopravvento sulla realta' stessa. Non c' e' piu' dialettica, perche' l' immagine si presenta come universo autonomo senza negativita' . L' immagine riproduce immagini e basta, non e' piu' rappresentazione non ha piu' bisogno di un avvenimento reale per generarsi". Jean Baudrillard
lunedì 23 novembre 2009
giovedì 19 novembre 2009
GOOGLE: «SIAMO SOLTANTO UN MOTORE DI RICERCA»
Istruttoria su «abuso di posizione dominante»
Qualcuno l'ha definito il grande fratello della rete. Il dominatore incontrastato del web. Il deus ex machina della rete che da qualche tempo ha l'ambizione di far sentire tutto il suo peso anche nell'area delle news, ovvero dell'informazione che ormai dilaga online, mettendo in ginocchio la carta stampata sia in termini di vendite sia in termini di flussi pubblicitari. Proprio ieri, tra l'altro, il Censis ha registrato un boom di Internet a scapito della carta stampata. Stiamo parlando del più potente motore di ricerca dell'era internet: Google. La macchina tecnologica fondata da Larry Page e Sergey Brin, i due giovanotti che, a soli 36 anni, già minacciano la top 10 Forbes dei più ricchi d'America. Una macchina portentosa che indicizza oltre un miliardo di pagine contenente parecchi miliardi di informazioni. Un motore che registra più di mezzo miliardo di utenti al giorno e che fornisce in tempo reale risposte con un semplice click. E che di recente è entrata nel mirino dell'Antitrust. Che Google non sia soltanto un'opportunità per gli editori ma anche una potenziale minaccia lo dimostra il fatto che gli editori italiani hanno infatti denunciato Google news (un giornale online fatto automaticamente grazie a un assemblaggio di notizie pescate da tutto il mondo), per abuso di posizione dominante. Secca la replica del responsabile di Google New, Josh Cohen: «É un falso problema, il nostro obbiettivo non sono i contenuti che non competono al nostro business, il nostro è un modello collaborativo e vincente per tutti: attraverso le nostre ricerche portiamo agli editori un miliardi di click al mese». Insomma, nessuna paura dicono a Google, noi siamo un motore di ricerca e resteremo tali.
La conferma di questa linea, che tuttavia non rassicura gli editori, ci viene da Jessica Powell, responsabile della comunicazione di Google per il sud Europa che abbiamo incontrato in video conferenza da Londra: «In generale i contenuti legati alle notizie sono poca cosa se si raffrontano alle ricerche d'altra natura che vengono fatte in rete utilizzando Google. Certo, lei che è un giornalista farà ricerche sulle news o sulla versione online dei giornali cartacei ma il navigatore tipo cerca prevalentemente altre cose quando utilizza Google. D'altronde la nostra offerta di news comprende anche strumenti come YouTube o la ricerca di brani musicali ma difficilmente possiamo essere considerati competitor con la carta stampata, il nostro è un'altro mestiere. Questo non significa che non ci interessi il settore dell'informazione». Resta il fatto, in effetti, che Google ha un 'occhio' sempre più attento all'informazione. Mi riferisco a un accordo che avete firmato con 40 editori negli Stati Uniti. «Lei mi pare che si riferisca a Google Fast Flip. Si tratta ancora di un esperimento. L'obbiettivo è coinsentire all'utente internet di sfogliare rapidamente un giornale online come se fosse un quotidiano. Ma anche in questo caso il contenuto è scelto dagli editori, noi ci limitiamo a proporre una modalità di lettura».
Dunque, dicono i responsabili della comunicazione di Google non c'è da temere una cannibalizzazione della carta stampata e comunque non sarà certo Google a mettere in ginocchio gli editori. Eppure le cifre Internet anche nel settore dell'informazione fanno tremare i polsi ai grandi giornali. Non parliamo poi della pubblicità. Prima di Google l'adversiting su Internet non funzionava, all'inizio di questo millennio centinaia di portali internet hanno chiuso i battenti per mancanza di introiti pubblicitari. Con l'avvento di Google le cose sono cambiate. In Italia gli utenti internet, anche grazie alla grande diffusione di Google, hanno toccato i 23 milioni, pari al 48% della popolazione. La potenza del motore di ricerca ha modificato il mercato tanto da diventare concorrente insidioso anche sul terreno della carta stampata. Non è così? Powell scuote la testa: «Certo l'adversiting online è cresciuto parecchio forse perchè siamo riusciti a proporre in rete un'offerta informativa molto pertinente alla pubblicità. Tuttavia bisogna considerare il fatto che Google non va considerato come un concorrente ma come un'opportunità: l'anno scorso abbiamo distribuito 6 miliardi di dollari frutto di inserzioni pubblicitarie su Google, in Italia abbiamo distribuito oltre 100 milioni. Il mercato italiano è tra i primi 10 al mondo e tra i primi 5 d'Europa dal punto di vista pubblicitario».
Istruttoria su «abuso di posizione dominante»
Qualcuno l'ha definito il grande fratello della rete. Il dominatore incontrastato del web. Il deus ex machina della rete che da qualche tempo ha l'ambizione di far sentire tutto il suo peso anche nell'area delle news, ovvero dell'informazione che ormai dilaga online, mettendo in ginocchio la carta stampata sia in termini di vendite sia in termini di flussi pubblicitari. Proprio ieri, tra l'altro, il Censis ha registrato un boom di Internet a scapito della carta stampata. Stiamo parlando del più potente motore di ricerca dell'era internet: Google. La macchina tecnologica fondata da Larry Page e Sergey Brin, i due giovanotti che, a soli 36 anni, già minacciano la top 10 Forbes dei più ricchi d'America. Una macchina portentosa che indicizza oltre un miliardo di pagine contenente parecchi miliardi di informazioni. Un motore che registra più di mezzo miliardo di utenti al giorno e che fornisce in tempo reale risposte con un semplice click. E che di recente è entrata nel mirino dell'Antitrust. Che Google non sia soltanto un'opportunità per gli editori ma anche una potenziale minaccia lo dimostra il fatto che gli editori italiani hanno infatti denunciato Google news (un giornale online fatto automaticamente grazie a un assemblaggio di notizie pescate da tutto il mondo), per abuso di posizione dominante. Secca la replica del responsabile di Google New, Josh Cohen: «É un falso problema, il nostro obbiettivo non sono i contenuti che non competono al nostro business, il nostro è un modello collaborativo e vincente per tutti: attraverso le nostre ricerche portiamo agli editori un miliardi di click al mese». Insomma, nessuna paura dicono a Google, noi siamo un motore di ricerca e resteremo tali.
La conferma di questa linea, che tuttavia non rassicura gli editori, ci viene da Jessica Powell, responsabile della comunicazione di Google per il sud Europa che abbiamo incontrato in video conferenza da Londra: «In generale i contenuti legati alle notizie sono poca cosa se si raffrontano alle ricerche d'altra natura che vengono fatte in rete utilizzando Google. Certo, lei che è un giornalista farà ricerche sulle news o sulla versione online dei giornali cartacei ma il navigatore tipo cerca prevalentemente altre cose quando utilizza Google. D'altronde la nostra offerta di news comprende anche strumenti come YouTube o la ricerca di brani musicali ma difficilmente possiamo essere considerati competitor con la carta stampata, il nostro è un'altro mestiere. Questo non significa che non ci interessi il settore dell'informazione». Resta il fatto, in effetti, che Google ha un 'occhio' sempre più attento all'informazione. Mi riferisco a un accordo che avete firmato con 40 editori negli Stati Uniti. «Lei mi pare che si riferisca a Google Fast Flip. Si tratta ancora di un esperimento. L'obbiettivo è coinsentire all'utente internet di sfogliare rapidamente un giornale online come se fosse un quotidiano. Ma anche in questo caso il contenuto è scelto dagli editori, noi ci limitiamo a proporre una modalità di lettura».
Dunque, dicono i responsabili della comunicazione di Google non c'è da temere una cannibalizzazione della carta stampata e comunque non sarà certo Google a mettere in ginocchio gli editori. Eppure le cifre Internet anche nel settore dell'informazione fanno tremare i polsi ai grandi giornali. Non parliamo poi della pubblicità. Prima di Google l'adversiting su Internet non funzionava, all'inizio di questo millennio centinaia di portali internet hanno chiuso i battenti per mancanza di introiti pubblicitari. Con l'avvento di Google le cose sono cambiate. In Italia gli utenti internet, anche grazie alla grande diffusione di Google, hanno toccato i 23 milioni, pari al 48% della popolazione. La potenza del motore di ricerca ha modificato il mercato tanto da diventare concorrente insidioso anche sul terreno della carta stampata. Non è così? Powell scuote la testa: «Certo l'adversiting online è cresciuto parecchio forse perchè siamo riusciti a proporre in rete un'offerta informativa molto pertinente alla pubblicità. Tuttavia bisogna considerare il fatto che Google non va considerato come un concorrente ma come un'opportunità: l'anno scorso abbiamo distribuito 6 miliardi di dollari frutto di inserzioni pubblicitarie su Google, in Italia abbiamo distribuito oltre 100 milioni. Il mercato italiano è tra i primi 10 al mondo e tra i primi 5 d'Europa dal punto di vista pubblicitario».
mercoledì 18 novembre 2009
Da Corriere dello Zar a foglio di sinistra?
Pubblico un pezzo mai pubblicato che ho scritto circa un mese fa quando c'è stata la polemica tra Silvio Berlusconi e Ferruccio De Bortoli sul ruolo del Corriere della Sera e poi tra il direttore del Corsera e Eugenio Scalfari su stampa e potere.
Da Corriere dello zar a foglio di sinistra? E' davvero questa l'iperbole storica del quotidiano di via Solferino? "Il Corriere della Sera - ha detto qualche giorno fa Silvio Berlusconi - da foglio conservatore della buona borghesia italiana è diventato un foglio di sinistra". Che il Corriere non sia di sinistra e neppure tanto di centro sinistra non c'è bisogno di essere dei sociologi per capirlo. Dopo l'endorsement voluto da Paolo Mieli a favore del governo Prodi e il successivo fallimento di quell'esperienza, il Corriere della Sera nel tentativo di recuperare le migliaia di copie perse tra i lettori conservatori tradizionalmente zoccolo duro del giornale, ha messo in atto una virata conservatrice piuttosto visibile, nella speranza di riprendersi almeno in parte le perdite subite. D'altronde è stato lo stesso Ferruccio De Bortoli, con un'autodifesa a tratti singolare a spiegare al premier che il Corriere della Sera non gli dovrebbe fare paura e che ha il più delle volte elogiato il governo e difeso l'operato dei suoi ministri. Il direttore del Corsera ha fatto un elenco lunghissimo per dimostrare che il Corsera non è di sinistra ma a Silvio Berlusconi, come ha scritto Marco Travaglio, non è bastato, perchè la sua voglia di controllare tutto è insaziabile. E allora? Si tratta di una delle solite boutade propagandische del capo del governo per screditare la stampa che osa pubblicare le notizie sulle sue scorrerie sessuali, (nel caso specifico la prima intervista in esclusiva alla signora Patrizia D'Addario) o siamo di nuovo di fronte a grandi manovre e pressioni politiche del capo del governo sugli azionisti di Rcs per ridurre del tutto la già risicata autonomia del Corriere della Sera? Non sarebbe la prima volta nella recente storia del Corsera. Il cavalier Berlusconi ha tentato più volte di mettere le mani su via Solferino: lo ha fatto nel 2003 quando Ferruccio De Bortoli fu costretto alle dimissioni dopo pesanti pressioni che ebbero un riscontro anche sulla prima pagina del quotidiano e lo ha fatto indirettamente attraverso la scalata di Stefano Ricucci a Rcs. Ormai dall'uomo di Arcore c'è da aspettarsi di tutto: dove può fa sentire il suo pesante peso politico senza tanti problemi. Usa la Rai con la stessa spregiudicatezza con la quale chiede agli industriali di non dare pubblicità a Repubblica, fa pressione sul Sole 24 ore per ottenere da Emma Marcegaglia un trattamento favorevole al suo governo e dunque non avrebbe nessuna vergogna a fare pressione sugli azionisti Rcs, magari attraverso sua figlia Marina Berlusconi insediata ai vertici di Mediobanca, per zittire le poche voci critiche di via Solferino. In un momento in cui i quotidiani hanno bisogno di denaro pubblico e degli ammortizzatori sociali per risolvere la drammatica crisi della carta stampata il potere di scambio del governo è molto alto e si può star certi che il nostro amato premier lo userà a tutto campo.
D'altronde, la storia del quotidiano di via Solferino, un giornale tradizionalmente moderato e conservatore, è comunque un pezzo di storia d'Italia. E nella storia del Novecento è stato spesso lo specchio delle grandi svolte politiche: quando il quotidiano di via Solferino perdeva totalmente la sua autonomia significava che qualcosa in Italia andava male. Così è avvenuto con il fascismo, così è avvenuto con la loggia massonica P2 e così poteva avvenire se i tentativi espliciti anche se ancora incompiuti del governo Berlusconi di controllarlo fossero andati a buon fine. Non si tratta semplicemente del quotidiano più venduto in Italia o, secondo alcuni, del più autorevole ma di un simbolo del potere e al tempo stesso di uno strumento per l'esercizio del potere. Il “Corriere della Sera” rappresenta al tempo stesso un'area moderata, elettoralmente importante e, in qualche modo, una parte della borghesia industriale e finanziaria italiana. Ferruccio De Bortoli più volte ne rivendica l'indipendenza. Ma da chi? Qualche volta, sia pure con timidezze e timori di non far troppo male con le critiche, dal potere politico. Ma non certo da quello economico e finanziario. Anche perchè nella proprietà del “Corriere della Sera” si trova il gotha, oggi al centro di una grave crisi, del capitalismo italiano.Tra gli azionisti di Rcs Media Group compaiono, infatti, i più importanti gruppi industriali italiani: la Fiat, Mediobanca, le Assicurazioni generali, Banca intesa, ovvero il primo gruppo bancario italiano, Telecom, ovvero il primo gruppo di telecomunicazioni e una serie di altri imprenditori e banchieri importanti. Quasi tutti questi gruppi sono reduci da una crisi economica gravissima e nessuno di loro può permettersi di avere un rapporto conflittuale con il governo. D'altronde la linea politica del presidente della Confindustria è lì a dimostrare una sorta di neo collateralismo tra imprenditori e governo. Fino a quando il fondatore e deus ex machina di Mediobanca, Enrico Cuccia, era vivo nessun governo aveva tentato di mettere le mani sul “Corriere della Sera”. Il defunto e potentissimo banchiere, nume tutelare del capitalismo italiano, aveva affidato, dopo la crisi della P2 dei primi anni '80, il controllo del “Corriere della Sera” agli Agnelli, imponendo loro l'acquisto in extremis, ma aveva sempre tenuto un occhio vigile sul quotidiano, non consentendo interferenze politiche. La situazione è precipitata con la morte di Enrico Cuccia e con la morte di Gianni Agnelli. Come è noto Berlusconi, attraverso le sue società, controlla direttamente tre Tv private, circa venti testate appartenenti alla Mondadori, “il Giornale”, quotidiano di proprietà di suo fratello, e “il Foglio”, di proprietà della moglie. Inoltre, da quando è presidente del Consiglio, controlla indirettamente la Rai. Sul “Corriere della Sera”, tuttavia, non è mai riuscito a mettere le mani. E' questa la sua rabbia. Passi che negli anni '90 si è fatto sfuggire la Repubblica ma non poter decidere il bello e il cattivo tempo al Corsera è troppo. Ma coloro che lavorano in vi Solferino raccontano che i tentativi di narcotizzarlo il più possibile è uno degli obiettivi del premier e dei suoi uomini. E quella battuta sul "foglio di sinistra" è un segnale più che eloquente.
Da Corriere dello zar a foglio di sinistra? E' davvero questa l'iperbole storica del quotidiano di via Solferino? "Il Corriere della Sera - ha detto qualche giorno fa Silvio Berlusconi - da foglio conservatore della buona borghesia italiana è diventato un foglio di sinistra". Che il Corriere non sia di sinistra e neppure tanto di centro sinistra non c'è bisogno di essere dei sociologi per capirlo. Dopo l'endorsement voluto da Paolo Mieli a favore del governo Prodi e il successivo fallimento di quell'esperienza, il Corriere della Sera nel tentativo di recuperare le migliaia di copie perse tra i lettori conservatori tradizionalmente zoccolo duro del giornale, ha messo in atto una virata conservatrice piuttosto visibile, nella speranza di riprendersi almeno in parte le perdite subite. D'altronde è stato lo stesso Ferruccio De Bortoli, con un'autodifesa a tratti singolare a spiegare al premier che il Corriere della Sera non gli dovrebbe fare paura e che ha il più delle volte elogiato il governo e difeso l'operato dei suoi ministri. Il direttore del Corsera ha fatto un elenco lunghissimo per dimostrare che il Corsera non è di sinistra ma a Silvio Berlusconi, come ha scritto Marco Travaglio, non è bastato, perchè la sua voglia di controllare tutto è insaziabile. E allora? Si tratta di una delle solite boutade propagandische del capo del governo per screditare la stampa che osa pubblicare le notizie sulle sue scorrerie sessuali, (nel caso specifico la prima intervista in esclusiva alla signora Patrizia D'Addario) o siamo di nuovo di fronte a grandi manovre e pressioni politiche del capo del governo sugli azionisti di Rcs per ridurre del tutto la già risicata autonomia del Corriere della Sera? Non sarebbe la prima volta nella recente storia del Corsera. Il cavalier Berlusconi ha tentato più volte di mettere le mani su via Solferino: lo ha fatto nel 2003 quando Ferruccio De Bortoli fu costretto alle dimissioni dopo pesanti pressioni che ebbero un riscontro anche sulla prima pagina del quotidiano e lo ha fatto indirettamente attraverso la scalata di Stefano Ricucci a Rcs. Ormai dall'uomo di Arcore c'è da aspettarsi di tutto: dove può fa sentire il suo pesante peso politico senza tanti problemi. Usa la Rai con la stessa spregiudicatezza con la quale chiede agli industriali di non dare pubblicità a Repubblica, fa pressione sul Sole 24 ore per ottenere da Emma Marcegaglia un trattamento favorevole al suo governo e dunque non avrebbe nessuna vergogna a fare pressione sugli azionisti Rcs, magari attraverso sua figlia Marina Berlusconi insediata ai vertici di Mediobanca, per zittire le poche voci critiche di via Solferino. In un momento in cui i quotidiani hanno bisogno di denaro pubblico e degli ammortizzatori sociali per risolvere la drammatica crisi della carta stampata il potere di scambio del governo è molto alto e si può star certi che il nostro amato premier lo userà a tutto campo.
D'altronde, la storia del quotidiano di via Solferino, un giornale tradizionalmente moderato e conservatore, è comunque un pezzo di storia d'Italia. E nella storia del Novecento è stato spesso lo specchio delle grandi svolte politiche: quando il quotidiano di via Solferino perdeva totalmente la sua autonomia significava che qualcosa in Italia andava male. Così è avvenuto con il fascismo, così è avvenuto con la loggia massonica P2 e così poteva avvenire se i tentativi espliciti anche se ancora incompiuti del governo Berlusconi di controllarlo fossero andati a buon fine. Non si tratta semplicemente del quotidiano più venduto in Italia o, secondo alcuni, del più autorevole ma di un simbolo del potere e al tempo stesso di uno strumento per l'esercizio del potere. Il “Corriere della Sera” rappresenta al tempo stesso un'area moderata, elettoralmente importante e, in qualche modo, una parte della borghesia industriale e finanziaria italiana. Ferruccio De Bortoli più volte ne rivendica l'indipendenza. Ma da chi? Qualche volta, sia pure con timidezze e timori di non far troppo male con le critiche, dal potere politico. Ma non certo da quello economico e finanziario. Anche perchè nella proprietà del “Corriere della Sera” si trova il gotha, oggi al centro di una grave crisi, del capitalismo italiano.Tra gli azionisti di Rcs Media Group compaiono, infatti, i più importanti gruppi industriali italiani: la Fiat, Mediobanca, le Assicurazioni generali, Banca intesa, ovvero il primo gruppo bancario italiano, Telecom, ovvero il primo gruppo di telecomunicazioni e una serie di altri imprenditori e banchieri importanti. Quasi tutti questi gruppi sono reduci da una crisi economica gravissima e nessuno di loro può permettersi di avere un rapporto conflittuale con il governo. D'altronde la linea politica del presidente della Confindustria è lì a dimostrare una sorta di neo collateralismo tra imprenditori e governo. Fino a quando il fondatore e deus ex machina di Mediobanca, Enrico Cuccia, era vivo nessun governo aveva tentato di mettere le mani sul “Corriere della Sera”. Il defunto e potentissimo banchiere, nume tutelare del capitalismo italiano, aveva affidato, dopo la crisi della P2 dei primi anni '80, il controllo del “Corriere della Sera” agli Agnelli, imponendo loro l'acquisto in extremis, ma aveva sempre tenuto un occhio vigile sul quotidiano, non consentendo interferenze politiche. La situazione è precipitata con la morte di Enrico Cuccia e con la morte di Gianni Agnelli. Come è noto Berlusconi, attraverso le sue società, controlla direttamente tre Tv private, circa venti testate appartenenti alla Mondadori, “il Giornale”, quotidiano di proprietà di suo fratello, e “il Foglio”, di proprietà della moglie. Inoltre, da quando è presidente del Consiglio, controlla indirettamente la Rai. Sul “Corriere della Sera”, tuttavia, non è mai riuscito a mettere le mani. E' questa la sua rabbia. Passi che negli anni '90 si è fatto sfuggire la Repubblica ma non poter decidere il bello e il cattivo tempo al Corsera è troppo. Ma coloro che lavorano in vi Solferino raccontano che i tentativi di narcotizzarlo il più possibile è uno degli obiettivi del premier e dei suoi uomini. E quella battuta sul "foglio di sinistra" è un segnale più che eloquente.
martedì 17 novembre 2009
Quando Berlusconi telefonò alla Compagnia delle Opere
Ecco un altra delle tante anomalie del nostro capo di governo raccontata in un mio articolo del gennaio 2002. Alcuni dei fatti qui raccontati sono superati ma la politica ad personam del presidente del consiglio non è cambiata dal 2002 a proposito della giustizia.
BRUNO PERINI
La telefonata arriva sul cellulare del presidente della Compagnia delle Opere,
Giorgio Vittadini, i primi giorni di gennaio di quest'anno. E' Silvio Berlusconi
che parla. Chi ha la possibilità di ascoltare il colloquio telefonico racconta
che il capo del governo con tono concitato chiede all'amico Vittadini di
convincere il giudice a latere del processo Sme, Giorgio Brambilla, vicino a
Comunione e Liberazione, a lasciare il tribunale che lo dovrà giudicare assieme
al fedele Cesare Previti, per corruzione in atti giudiziari. Quando i più
stretti collaboratori del presidente del consiglio vengono a conoscenza di
quell'episodio capiscono qual è l'incubo che disturba il sonno del "capo". Il
Presidente si è esposto in prima persona perché è seriamente preoccupato di come
stanno andando le cose nei processi che riguardano lui e l'amico Previti. Sa che
le sentenze potrebbero arrivare in autunno e che un'eventuale condanna per
corruzione in atti giudiziari non sarebbe digerita dal Quirinale. Quel processo
va distrutto costi quel che costi. Il blitz sul processo Sme, tuttavia, non
riesce. Se Brambilla se ne fosse andato il processo sarebbe cominciato da capo e
forse il Presidente del Consiglio avrebbe potuto evitare di piegare le
istituzioni della Repubblica ai suoi interessi giudiziari come è avvenuto ieri
in Senato. Ma così non è stato. E da quel momento Silvio Berlusconi pensa a una
strategia d'attacco più generale, che metta in discussione non soltanto un
giudice o un tribunale ma gli spazi stessi di democrazia, la stessa separazione
dei poteri pensata dalla Costituzione.
L'episodio che abbiamo raccontato, di per sé gravissimo, (manifesto del 12
gennaio 2002), rappresenta in qualche modo l'inizio dello strisciante golpe
bianco organizzato nei dettagli dal premier, dallo stesso Previti, dai
legali-dipendenti di Berlusconi e da tutto l'establishment del capo del governo.
Così come il colpo di mano istituzionale che si è consumato al Senato è il punto
di precipizio di una politica sulla giustizia che il governo Berlusconi ha
preparato in modo minuzioso dal primo giorno del suo insediamento. Gli uomini
che devono preparere l'assalto alla magistratura vengono scelti e collocati
personalmente da Berlusconi: così Carlo Nordio viene incaricato di riscrivere il
codice penale, mentre Gaetano Pecorella diventa Giano bifronte: è al tempo
stesso penalista di Berlusconi nei processi milanesi e presidente della
Commissione Giustizia.
Paolo Sylos Labini, parlando di illegalità organizzata del governo Berlusconi,
osserva giustamente che il vero conflitto d'interesse del capo del governo è
prima di tutto giudiziario. Dopo aver risolto alcune cosette di famiglia, come
l'abolizione della tassa di successione, il cavaliere nei suoi primi cento
giorni si dedica infatti alle cose serie e parte lancia in resta contro le
rogatorie. La ragione è banale: i documenti ottenuti per rogatoria sono un
elemento di prova decisivo nei processi a carico di Silvio Berlusconi, Cesare
Previti e Marcello Dell'Utri. Creare ostacoli alle rogatorie significa ritardare
i processi in corso e guadagnarsi, dove è possibile, la prescrizione dei reati.
La scelta dei tempi tra l'altro è infelicissima: la legge sulle rogatorie viene
varata poco prima dell'11 settembre, quando le autorità internazionali avrebbero
bisogno di una legislazione più snella per scoprire le connection di Al Quaeda.
Le critiche della stampa conservatrice internazionale sono feroci. Il Los
Angeles Times accusa addirittura il governo italiano di rendere più difficile la
caccia al terrorismo internazionale ma Berlusconi si fa un baffo di quelle
critiche e racconta nei salotti dei suoi fedeli che sicuramente dietro il
quotidiano californiano ci sono dei comunisti.
Il secondo punto del programma ad personam di Silvio Berlusconi riguarda
l'abolizione del reato di falso in bilancio. L'uomo che è più attivo nel
modificare e annacquare la legislazione precedente è proprio l'ex militante
della sinistra extraparlamentare Gaetano Pecorella, oggi penalista di Berlusconi
assieme a Niccolò Ghedini, in una serie di processi nei quali, guarda caso, a
Berlusconi viene contestato proprio il falso in bilancio. L'abolizione del reato
di falso in bilancio piace molto ad alcuni imprenditori italiani ma viene
guardato con grande sospetto all'estero. Anche in questo caso il tempismo di
Berlusconi è eccezionale: l'abolizione di uno dei più gravi reati in materia di
criminalità economica avviene alla vigilia della più grave crisi che attraversa
il capitalismo americano, ammorbato proprio dal falso in bilancio. Così mentre
Bush, suo malgrado, sarà costretto ad introdurre leggi severissime sul falso in
bilancio, gli imprenditori corrotti di Enron e WorldCom potranno sempre chiedere
al loro collega Berlusconi cittadinanza italiana. Qui, con la legislazione
varata dal governo del cavaliere, saranno in una botte di ferro.
Al capo del governo, tuttavia, non basta la legislazione che lo tutela dai reati
che gli sono contestati. E non gli basta neppure un mostro giuridico come la
legge sul conflitto d'interessi che gli garantisce di essere al tempo stesso
capo del governo e azionista di controllo di Mediaset, presidente del consiglio
e azionista di banche, assicurazioni e grandi gruppi industriali. La spina nel
fianco di Berlusconi è la giustizia. E' per questo che, dopo aver creato quella
che somiglia a una rete di protezione per la criminalità economica, si dedica
con tutto il suo esercito alla guerra finale contro la magistratura.
Con una tecnica da guastatori i legali di Berlusconi iniziano la loro opera
demolitrice nei processi Sme e Imi-Sir, (unificati successivamente con il
processo per il Lodo Mondadori), con raffiche di contestazioni. Spesso l'azione
dei legali è combinata con attacchi al Csm o all'Associazione nazionale
magistrati. Le pressioni sui giudici, tuttavia non funzionano. E come abbiamo
scritto sopra, non funzionano neppure le pressioni fatte dal capo del governo in
persona per cacciare il giudice Brambilla dal processo Sme.
Dopo un'ondata di ricusazioni dei loro giudici naturali, gli imputati Silvio
Berlusconi e Cesare Previti decidono quindi la sfida finale. All'udienza del
primo marzo di quest'anno Niccolò Ghedini, difensore di Berlusconi deposita
presso la prima sezione penale del tribunale di Milano un'istanza di 66 pagine
nella quala chiede alla Corte di Cassazione che i processi a carico del duo
Berlusconi-Previti vengano spostati in altra sede. E' una decisione che alza il
tiro dello scontro ma che rimane ancora in ambito processuale. Palazzo Chigi ha
in serbo un'altra arma: quella dell'immunità parlamentare. I consiglieri di
Palazzo Chigi sono convinti che la maggioranza parlamentare possa riuscire a far
passare la cosiddetta ipotesi spagnola, ovvero la legge che blocca tutti i
procedimenti penali a carico dei parlamentari. Di preparare la proposta di legge
s'incarica il forzista Nitto Paola. La sua proposta viene travolta dalle
critiche ma non è questo il motivo per cui Berlusconi blocca il suo consigliere.
L'ipotesi spagnola è piena di trappole, perché assieme al processo viene
congelata anche la prescrizione. E nei casi di condanna c'è la clausola della
non rielezione. Meglio il legittimo sospetto.
BRUNO PERINI
La telefonata arriva sul cellulare del presidente della Compagnia delle Opere,
Giorgio Vittadini, i primi giorni di gennaio di quest'anno. E' Silvio Berlusconi
che parla. Chi ha la possibilità di ascoltare il colloquio telefonico racconta
che il capo del governo con tono concitato chiede all'amico Vittadini di
convincere il giudice a latere del processo Sme, Giorgio Brambilla, vicino a
Comunione e Liberazione, a lasciare il tribunale che lo dovrà giudicare assieme
al fedele Cesare Previti, per corruzione in atti giudiziari. Quando i più
stretti collaboratori del presidente del consiglio vengono a conoscenza di
quell'episodio capiscono qual è l'incubo che disturba il sonno del "capo". Il
Presidente si è esposto in prima persona perché è seriamente preoccupato di come
stanno andando le cose nei processi che riguardano lui e l'amico Previti. Sa che
le sentenze potrebbero arrivare in autunno e che un'eventuale condanna per
corruzione in atti giudiziari non sarebbe digerita dal Quirinale. Quel processo
va distrutto costi quel che costi. Il blitz sul processo Sme, tuttavia, non
riesce. Se Brambilla se ne fosse andato il processo sarebbe cominciato da capo e
forse il Presidente del Consiglio avrebbe potuto evitare di piegare le
istituzioni della Repubblica ai suoi interessi giudiziari come è avvenuto ieri
in Senato. Ma così non è stato. E da quel momento Silvio Berlusconi pensa a una
strategia d'attacco più generale, che metta in discussione non soltanto un
giudice o un tribunale ma gli spazi stessi di democrazia, la stessa separazione
dei poteri pensata dalla Costituzione.
L'episodio che abbiamo raccontato, di per sé gravissimo, (manifesto del 12
gennaio 2002), rappresenta in qualche modo l'inizio dello strisciante golpe
bianco organizzato nei dettagli dal premier, dallo stesso Previti, dai
legali-dipendenti di Berlusconi e da tutto l'establishment del capo del governo.
Così come il colpo di mano istituzionale che si è consumato al Senato è il punto
di precipizio di una politica sulla giustizia che il governo Berlusconi ha
preparato in modo minuzioso dal primo giorno del suo insediamento. Gli uomini
che devono preparere l'assalto alla magistratura vengono scelti e collocati
personalmente da Berlusconi: così Carlo Nordio viene incaricato di riscrivere il
codice penale, mentre Gaetano Pecorella diventa Giano bifronte: è al tempo
stesso penalista di Berlusconi nei processi milanesi e presidente della
Commissione Giustizia.
Paolo Sylos Labini, parlando di illegalità organizzata del governo Berlusconi,
osserva giustamente che il vero conflitto d'interesse del capo del governo è
prima di tutto giudiziario. Dopo aver risolto alcune cosette di famiglia, come
l'abolizione della tassa di successione, il cavaliere nei suoi primi cento
giorni si dedica infatti alle cose serie e parte lancia in resta contro le
rogatorie. La ragione è banale: i documenti ottenuti per rogatoria sono un
elemento di prova decisivo nei processi a carico di Silvio Berlusconi, Cesare
Previti e Marcello Dell'Utri. Creare ostacoli alle rogatorie significa ritardare
i processi in corso e guadagnarsi, dove è possibile, la prescrizione dei reati.
La scelta dei tempi tra l'altro è infelicissima: la legge sulle rogatorie viene
varata poco prima dell'11 settembre, quando le autorità internazionali avrebbero
bisogno di una legislazione più snella per scoprire le connection di Al Quaeda.
Le critiche della stampa conservatrice internazionale sono feroci. Il Los
Angeles Times accusa addirittura il governo italiano di rendere più difficile la
caccia al terrorismo internazionale ma Berlusconi si fa un baffo di quelle
critiche e racconta nei salotti dei suoi fedeli che sicuramente dietro il
quotidiano californiano ci sono dei comunisti.
Il secondo punto del programma ad personam di Silvio Berlusconi riguarda
l'abolizione del reato di falso in bilancio. L'uomo che è più attivo nel
modificare e annacquare la legislazione precedente è proprio l'ex militante
della sinistra extraparlamentare Gaetano Pecorella, oggi penalista di Berlusconi
assieme a Niccolò Ghedini, in una serie di processi nei quali, guarda caso, a
Berlusconi viene contestato proprio il falso in bilancio. L'abolizione del reato
di falso in bilancio piace molto ad alcuni imprenditori italiani ma viene
guardato con grande sospetto all'estero. Anche in questo caso il tempismo di
Berlusconi è eccezionale: l'abolizione di uno dei più gravi reati in materia di
criminalità economica avviene alla vigilia della più grave crisi che attraversa
il capitalismo americano, ammorbato proprio dal falso in bilancio. Così mentre
Bush, suo malgrado, sarà costretto ad introdurre leggi severissime sul falso in
bilancio, gli imprenditori corrotti di Enron e WorldCom potranno sempre chiedere
al loro collega Berlusconi cittadinanza italiana. Qui, con la legislazione
varata dal governo del cavaliere, saranno in una botte di ferro.
Al capo del governo, tuttavia, non basta la legislazione che lo tutela dai reati
che gli sono contestati. E non gli basta neppure un mostro giuridico come la
legge sul conflitto d'interessi che gli garantisce di essere al tempo stesso
capo del governo e azionista di controllo di Mediaset, presidente del consiglio
e azionista di banche, assicurazioni e grandi gruppi industriali. La spina nel
fianco di Berlusconi è la giustizia. E' per questo che, dopo aver creato quella
che somiglia a una rete di protezione per la criminalità economica, si dedica
con tutto il suo esercito alla guerra finale contro la magistratura.
Con una tecnica da guastatori i legali di Berlusconi iniziano la loro opera
demolitrice nei processi Sme e Imi-Sir, (unificati successivamente con il
processo per il Lodo Mondadori), con raffiche di contestazioni. Spesso l'azione
dei legali è combinata con attacchi al Csm o all'Associazione nazionale
magistrati. Le pressioni sui giudici, tuttavia non funzionano. E come abbiamo
scritto sopra, non funzionano neppure le pressioni fatte dal capo del governo in
persona per cacciare il giudice Brambilla dal processo Sme.
Dopo un'ondata di ricusazioni dei loro giudici naturali, gli imputati Silvio
Berlusconi e Cesare Previti decidono quindi la sfida finale. All'udienza del
primo marzo di quest'anno Niccolò Ghedini, difensore di Berlusconi deposita
presso la prima sezione penale del tribunale di Milano un'istanza di 66 pagine
nella quala chiede alla Corte di Cassazione che i processi a carico del duo
Berlusconi-Previti vengano spostati in altra sede. E' una decisione che alza il
tiro dello scontro ma che rimane ancora in ambito processuale. Palazzo Chigi ha
in serbo un'altra arma: quella dell'immunità parlamentare. I consiglieri di
Palazzo Chigi sono convinti che la maggioranza parlamentare possa riuscire a far
passare la cosiddetta ipotesi spagnola, ovvero la legge che blocca tutti i
procedimenti penali a carico dei parlamentari. Di preparare la proposta di legge
s'incarica il forzista Nitto Paola. La sua proposta viene travolta dalle
critiche ma non è questo il motivo per cui Berlusconi blocca il suo consigliere.
L'ipotesi spagnola è piena di trappole, perché assieme al processo viene
congelata anche la prescrizione. E nei casi di condanna c'è la clausola della
non rielezione. Meglio il legittimo sospetto.
Quando Bossi tramava contro il nemico Berlusconi
Voglio ripubblicare come prima cosa sul mio blog un articolo che ho scritto sul manifesto nel 2001: "QUANDO BOSSI TRAMAVA...". A rileggerlo oggi fa una certa impressione, soprattutto alla luce dell'ultima trasmissione di Report su Berlusconi.
BRUNO PERINI - MILANO
La storia che vi raccontiamo è piuttosto torbida e potrebbe avere per titolo "Il grande ricatto". E' una storiaccia che risale a 6 anni fa e che ha per protagonisti Umberto Bossi, la Lega, e un ex poliziotto svizzero dell'antidroga: Fausto Cattaneo, autore di un libro, "Come mi sono infiltrato nei cartelli della droga", uscito in Francia qualche mese fa per l'editore Albin-Michel e in cerca di un editore in Italia. Sullo sfondo la palude berlusconiana che potrebbe allagarci il 13 maggio. Qualcuno, come ad esempio Michele Gambino nel libro di recente pubblicazione "Il cavaliere B.", ha già accennato alla vicenda da basso impero che cercheremo di raccontare in questo servizio, ma noi, alla vigilia delle elezioni, abbiamo voluto tornarci per ricordare a noi stessi e a tutti quelli che andranno a votare la qualità umana e politica degli uomini che fra una settimana potrebbero prendere le redini del paese. Per evitare fraintendimenti e imprecisioni siamo andati a trovare a pochi chilometri da Bellinzona, Fausto Cattaneo, l'ex poliziotto, e ci siamo fatti raccontare da lui gli avvenimenti di questo scorcio di Berlusconeide.
Bisogna fare un passo indietro. E tornare al 1991 quando Fausto Cattaneo, agente antidroga, nome in codice Pierre Tarditi, viene in contatto, in veste di infiltrato, con Juan Ripoll Mari, un finanziere ispano-brasiliano che si occupa di importazione di prodotti alimentari dal Sud America. Ripoll, secondo le polizie di mezzo mondo, non è soltanto un commerciante, la sua attività clandestina pare che sia il riciclaggio di denaro sporco. Cattaneo viene infiltrato proprio per partecipare a un'operazione di riciclaggio che prenderà il nome di "Mato Grosso" e che vede come capofila Juan Ripoll Mari. Quando Cattaneo si incontra con lui, questi gli dice: "Il tuo compito sarà quello di prelevare i soldi dalla Spagna, dalla Francia e dall'Italia e trasferirli in Svizzera per versarli su un conto corrente a Lugano". Il "commerciante", tuttavia, non dice soltanto questo. Quando parla dei "consorzi" che dovranno consegnare il denaro da portare in Svizzera aggiunge: "In Italia dovrai andare dagli uomini del clan Berlusconi". Quelli di Torino, specifica Ripoll Mari.
Tutto è pronto per l'operazione Mato Grosso, ma alla vigilia della partenza l'inchiesta della polizia cantonale si interrompe e dell'operazione di riciclaggio non si sa più nulla fino a qualche anno dopo. Ma Pierre Tarditi, alias Fausto Cattaneo, scrive un rapporto di polizia, datato 13 settembre 1991, nel quale cita esplicitamente l'episodio che riguarda Silvio Berlusconi, raccontato da Rippol Mari. Il commissario dell'antidroga aggiunge che già in passato era spuntato il nome di Silvio Berlusconi a proposito della Pizza connection e dunque non c'è da meravigliarsi.
"E' sulla base di quel rapporto - racconta Fausto Cattaneo pensando a quei giorni turbolenti - che nel 1995 fui contattato prima dagli uomini di Umberto Bossi, poi da Bossi in persona. C'era appena stato il ribaltone e quando la Lega venne a conoscenza del mio rapporto mi chiese un incontro. Volevano da me le prove delle mani sporche di Berlusconi. Come mi spiegarono di persona, volevano distruggere quel personaggio di nome Silvio Berlusconi. Era una domenica di primavera. Al bar Club di Cadenazzo (Bellinzona), un villaggio di 800 abitanti, incontrai il deputato Roberto Calderoli e il professor Gian Battista Gualdi. Bevemmo un ottimo vino francese. Ricordo persino che il proprietario, un vecchio amico, mi disse: "Il locale rimane aperto fino a mezzogiorno, ma tu fai quello che devi fare. Quando hai finito chiudi e poi mi fai avere le chiavi". I due galoppini di Bossi mi chiesero se su Berlusconi sapevo qualcosa di più di quello che avevo scritto nel rapporto. Risposi di no e spiegai loro che a un certo punto l'operazione che avrebbe dovuto portare a Torino si era interrotta per motivi a me ignoti ma gli feci capire che, essendo io un investigatore ormai fuori dalla polizia, avrei potuto continuare le indagini. Calderoli e Gualdi mi risposero che non erano autorizzati ad affidarmi un'inchiesta e mi dissero che mi avrebbero fatto parlare con Bossi. Dopo qualche giorno il professor Gualdi mi chiamò al telefono e mi disse che Bossi era pronto a incontrarmi nella sede della Lega a Milano. In quei giorni, prima dell'incontro con Bossi, ricevetti una telefonata da un esponente della Lega, il senatore Boso, che mi chiedeva di impegnarmi a fondo per distruggere Berlusconi".
Che cosa ricorda di quell'incontro? "Intanto non feci l'errore di andare solo. Mi presentai con due miei amici. Uno di questi era un commissario di polizia in pensione, l'altro era un giornalista. All'inizio Bossi fece il duro, sembrava che gli desse fastidio la nostra presenza. Ma quando gli feci capire che erano loro che avevano bisogno di me, abbassò le arie e cominciò a dirne di tutti i colori su Silvio Berlusconi. Ci lasciammo con un nulla di fatto ma pochi giorni dopo mi telefonò il professor Gualdi e mi disse che la lega Nord aveva stanziato un primo anticipo di 8 milioni per consentirmi di fare un viaggio in Brasile, dove avevo avuto i primi contatti con Juan Castaneda, (il nome in codice usato da Cattaneo quando parla di Juan Ripoll Mari, ndr). Mi diedero gli otto milioni in una busta all'uscita dell'autostrada, Como Nord. Quando arrivai in Brasile mi limitai in un primo tempo a ricostruire le strade di come avevo conosciuto Juan Castaneda. Scoprii però una cosa interessante che nel mio intimo mi convinse pienamente a proposito dei rapporti che Juan Castaneda diceva di avere con la Fininvest. Ecco di cosa si tratta: in un hotel di proprietà di un amico intimo di Castaneda, tale Felipe, scoprii che si teneva un congresso o riunione di tutta la Fininvest del Brasile. Tentai di entrare ma non ci riuscii, il summit era ben protetto dalla security. Alla fine del mio soggiorno a Rio De Janeiro tornai in Italia e dissi agli uomini di Umberto Bossi che le cose si stavano mettendo bene. Ma da quel giorno non ebbi più notizie delle persone che mi avevano cercato".
Spariti per sempre? "Sì. E mi sono sempre chiesto perché siano improvvisamente scomparsi gli emissari di Umberto Bossi". Già, una bella domanda che rimarrà senza risposta. Forse.
Il Manifesto 9/5/2001
BRUNO PERINI - MILANO
La storia che vi raccontiamo è piuttosto torbida e potrebbe avere per titolo "Il grande ricatto". E' una storiaccia che risale a 6 anni fa e che ha per protagonisti Umberto Bossi, la Lega, e un ex poliziotto svizzero dell'antidroga: Fausto Cattaneo, autore di un libro, "Come mi sono infiltrato nei cartelli della droga", uscito in Francia qualche mese fa per l'editore Albin-Michel e in cerca di un editore in Italia. Sullo sfondo la palude berlusconiana che potrebbe allagarci il 13 maggio. Qualcuno, come ad esempio Michele Gambino nel libro di recente pubblicazione "Il cavaliere B.", ha già accennato alla vicenda da basso impero che cercheremo di raccontare in questo servizio, ma noi, alla vigilia delle elezioni, abbiamo voluto tornarci per ricordare a noi stessi e a tutti quelli che andranno a votare la qualità umana e politica degli uomini che fra una settimana potrebbero prendere le redini del paese. Per evitare fraintendimenti e imprecisioni siamo andati a trovare a pochi chilometri da Bellinzona, Fausto Cattaneo, l'ex poliziotto, e ci siamo fatti raccontare da lui gli avvenimenti di questo scorcio di Berlusconeide.
Bisogna fare un passo indietro. E tornare al 1991 quando Fausto Cattaneo, agente antidroga, nome in codice Pierre Tarditi, viene in contatto, in veste di infiltrato, con Juan Ripoll Mari, un finanziere ispano-brasiliano che si occupa di importazione di prodotti alimentari dal Sud America. Ripoll, secondo le polizie di mezzo mondo, non è soltanto un commerciante, la sua attività clandestina pare che sia il riciclaggio di denaro sporco. Cattaneo viene infiltrato proprio per partecipare a un'operazione di riciclaggio che prenderà il nome di "Mato Grosso" e che vede come capofila Juan Ripoll Mari. Quando Cattaneo si incontra con lui, questi gli dice: "Il tuo compito sarà quello di prelevare i soldi dalla Spagna, dalla Francia e dall'Italia e trasferirli in Svizzera per versarli su un conto corrente a Lugano". Il "commerciante", tuttavia, non dice soltanto questo. Quando parla dei "consorzi" che dovranno consegnare il denaro da portare in Svizzera aggiunge: "In Italia dovrai andare dagli uomini del clan Berlusconi". Quelli di Torino, specifica Ripoll Mari.
Tutto è pronto per l'operazione Mato Grosso, ma alla vigilia della partenza l'inchiesta della polizia cantonale si interrompe e dell'operazione di riciclaggio non si sa più nulla fino a qualche anno dopo. Ma Pierre Tarditi, alias Fausto Cattaneo, scrive un rapporto di polizia, datato 13 settembre 1991, nel quale cita esplicitamente l'episodio che riguarda Silvio Berlusconi, raccontato da Rippol Mari. Il commissario dell'antidroga aggiunge che già in passato era spuntato il nome di Silvio Berlusconi a proposito della Pizza connection e dunque non c'è da meravigliarsi.
"E' sulla base di quel rapporto - racconta Fausto Cattaneo pensando a quei giorni turbolenti - che nel 1995 fui contattato prima dagli uomini di Umberto Bossi, poi da Bossi in persona. C'era appena stato il ribaltone e quando la Lega venne a conoscenza del mio rapporto mi chiese un incontro. Volevano da me le prove delle mani sporche di Berlusconi. Come mi spiegarono di persona, volevano distruggere quel personaggio di nome Silvio Berlusconi. Era una domenica di primavera. Al bar Club di Cadenazzo (Bellinzona), un villaggio di 800 abitanti, incontrai il deputato Roberto Calderoli e il professor Gian Battista Gualdi. Bevemmo un ottimo vino francese. Ricordo persino che il proprietario, un vecchio amico, mi disse: "Il locale rimane aperto fino a mezzogiorno, ma tu fai quello che devi fare. Quando hai finito chiudi e poi mi fai avere le chiavi". I due galoppini di Bossi mi chiesero se su Berlusconi sapevo qualcosa di più di quello che avevo scritto nel rapporto. Risposi di no e spiegai loro che a un certo punto l'operazione che avrebbe dovuto portare a Torino si era interrotta per motivi a me ignoti ma gli feci capire che, essendo io un investigatore ormai fuori dalla polizia, avrei potuto continuare le indagini. Calderoli e Gualdi mi risposero che non erano autorizzati ad affidarmi un'inchiesta e mi dissero che mi avrebbero fatto parlare con Bossi. Dopo qualche giorno il professor Gualdi mi chiamò al telefono e mi disse che Bossi era pronto a incontrarmi nella sede della Lega a Milano. In quei giorni, prima dell'incontro con Bossi, ricevetti una telefonata da un esponente della Lega, il senatore Boso, che mi chiedeva di impegnarmi a fondo per distruggere Berlusconi".
Che cosa ricorda di quell'incontro? "Intanto non feci l'errore di andare solo. Mi presentai con due miei amici. Uno di questi era un commissario di polizia in pensione, l'altro era un giornalista. All'inizio Bossi fece il duro, sembrava che gli desse fastidio la nostra presenza. Ma quando gli feci capire che erano loro che avevano bisogno di me, abbassò le arie e cominciò a dirne di tutti i colori su Silvio Berlusconi. Ci lasciammo con un nulla di fatto ma pochi giorni dopo mi telefonò il professor Gualdi e mi disse che la lega Nord aveva stanziato un primo anticipo di 8 milioni per consentirmi di fare un viaggio in Brasile, dove avevo avuto i primi contatti con Juan Castaneda, (il nome in codice usato da Cattaneo quando parla di Juan Ripoll Mari, ndr). Mi diedero gli otto milioni in una busta all'uscita dell'autostrada, Como Nord. Quando arrivai in Brasile mi limitai in un primo tempo a ricostruire le strade di come avevo conosciuto Juan Castaneda. Scoprii però una cosa interessante che nel mio intimo mi convinse pienamente a proposito dei rapporti che Juan Castaneda diceva di avere con la Fininvest. Ecco di cosa si tratta: in un hotel di proprietà di un amico intimo di Castaneda, tale Felipe, scoprii che si teneva un congresso o riunione di tutta la Fininvest del Brasile. Tentai di entrare ma non ci riuscii, il summit era ben protetto dalla security. Alla fine del mio soggiorno a Rio De Janeiro tornai in Italia e dissi agli uomini di Umberto Bossi che le cose si stavano mettendo bene. Ma da quel giorno non ebbi più notizie delle persone che mi avevano cercato".
Spariti per sempre? "Sì. E mi sono sempre chiesto perché siano improvvisamente scomparsi gli emissari di Umberto Bossi". Già, una bella domanda che rimarrà senza risposta. Forse.
Il Manifesto 9/5/2001
Iscriviti a:
Post (Atom)